Non si può davvero dire che nel nostro Paese le riforme del diritto del lavoro succedutesi negli ultimi quindici anni abbiano avuto fortuna, benché fossero state presentate come tappe epocali della nostra evoluzione legislativa. Del-la Legge Biagi, del 2003, sopravvive ben poco. Il Collegato Lavoro del 2010 lo ricordano solo gli specialisti del set-tore. La Legge Fornero ha accentrato su di sé le più feroci critiche e, se non fosse stato per le ragioni di bilancio, già sarebbe stata eradicata dal nostro ordinamento. Il Jobs Act non è nemmeno stato del tutto attuato (che ne è delle politiche attive per l’impiego, qual è stata l’efficacia dell’ANPAL?) e per la parte, invece, in cui lo è stato, è dovuto sopravvivere agli attacchi frontali del massimalismo nostrano più barricadiero, e non solo. Eppure, gli sgravi contributivi disposti dalla Legge di Stabilità del 2015 avevano pur prodotto un incremento dei rapporti di lavoro su-bordinato a tempo indeterminato ed il mercato della lavoro oggi, benché non uniformemente sul piano nazionale, è senz’altro migliore anche solo di un paio d’anni fa.
Una diversa sorte avrà invece la controriforma approvata ieri sera dal Governo con il cd. Decreto Dignità. Il prece-dente tridentino in campo religioso ci insegna, infatti, che operazioni del genere sono coronate dal successo, so-prattutto se tra i loro effetti vi è anche quello di soffocare ogni rigurgito di evoluzione economica e sociale. E che di controriforma si tratti, non pare dubbio.
Il Jobs Act si muoveva con l’obiettivo di facilitare l’accesso al mercato del lavoro con contratti di lavoro subordinato più flessibili in cambio di una maggior flessibilità in uscita.
Il Decreto Dignità limita fortemente la durata dei contratti di lavoro a tempo determinato cd. “acausali” e reintroduce quelli cd. “causali”, con una manciata di restrizioni per le eventuali proroghe e con un aggravio del contributo a cari-co del datore di lavoro in caso di rinnovo. Che di retromarcia si tratti rispetto alla flessibilità in entrata perseguita dai precedenti legislatori non sembra discutibile. A ciò, però, si aggiunge una macroscopica confusione di concetti tra flessibilità in entrata e precarietà. Se si ritiene, infatti, che il contratto di lavoro a tempo determinato sia una forma di precarietà, ci si domanda che si debba allora pensare delle false partite IVA, dei contratti di lavoro autonomo fit-tizi, se non addirittura del lavoro nero che verosimilmente prolifereranno in seguito all’entra in vigore del provvedi-mento governativo.
Il Decreto Dignità incrementa poi notevolmente la sanzione a carico del datore di lavoro in caso di licenziamenti as-seritamente illegittimi fondati sia su motivi di natura soggettiva, sia su motivi di natura economica. In pratica, ciò si traduce in un incremento dei costi dei licenziamenti, ossia in una misura che si colloca in direzione del tutto oppo-sta alla flessibilità in uscita delineata dai precedenti legislatori.
Il Governo, insomma, ripropone misure già sperimentate e già rivelatesi inidonee a fronteggiare le criticità dell’attuale mercato del lavoro. Sembra inverosimile che ciò possa oggi conseguire quegli obiettivi di lotta alla precarietà che già analoghi provvedimenti avevano mancato nel passato. Le leggi, comunque, dovrebbero essere valu-tate ex post per il loro effetti che possono essere previsti, invero, solo in limitata misura. Ci farebbe senz’altro pia-cere se il tempo dissipasse l’odierno pessimismo.
Con la collaborazione di Isabella Basilico