First published by IlSole24Ore online 02/02/2017.
Il tema dell'abusività del recesso della causa automobilistica dal contratto di concessione in vendita e della salvaguardia degli interessi delle imprese concessionarie è stato oggetto di particolare attenzione da parte delle corti di legittimità e di merito che negli anni hanno elaborato indirizzi ermeneutici talvolta orientati alla salvaguardia delle concessionarie, ritenute la parte contrattuale "debole", con sacrificio delle scelte imprenditoriali delle case automobilistiche.
In particolare, con la nota sentenza n. 20106 del 18 settembre 2009 , la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto necessario, ai fini dell'esercizio di un lecito recesso da parte di una casa automobilistica da un contratto di concessione in vendita, oltre all'assegnazione di un congruo preavviso alla concessionaria, anche la presenza di effettive ragioni di recesso, sorrette da correttezza e buona fede oggettiva, indipendentemente dalla circostanza che le parti avessero contrattualmente previsto tale diritto di recesso.
La libertà di recedere dal contratto di concessione per modificare l'assetto della rete di vendita da parte della casa automobilistica deve, a dire di tale sentenza, essere bilanciata con il dovere imposto a ciascun contrante di agire in modo tale da preservare gli interessi dell'altro contraente, a prescindere dall'esistenza di una disciplina convenzionale che permetta l'esercizio di tale recesso.
La Corte di legittimità ha così riformato la decisione di secondo grado che aveva confermato la decisione di primo grado, la quale aveva a sua volta concluso per la liceità del recesso ad nutum non foss'altro perchè contrattualmente previsto, ed ha rinviato la causa nuovamente alla corte di seconde cure, affinchè questa effettuasse una nuova valutazione della liceità del recesso alla luce dei canoni di correttezza e di buona fede, così come enunciati.
A seguito di tale decisione, in dottrina ha avuto inizio un ampio dibattito in gran parte contrario alla correttezza dei contenuti della succitata sentenza, in quanto l'applicazione degli stessi avrebbe fatto venir meno la supremazia della volontà delle parti nella scelta dei contenuti delle clausole contrattuali, a favore dell'intromissione del potere dell'autorità giudiziaria.
L'esigenza, infatti, che l'atto di recesso venga condizionato alle clausole generali di buona fede nell'interpretazione e nell'esecuzione del contratto, sottopone al sindacato del giudice, negli scopi e nelle modalità, l'esercizio di un diritto addirittura pur se convenzionalmente previsto dalle parti come libero ed incondizionato, così penalizzando, a posteriori, le scelte contrattuali, nonchè imprenditoriali delle parti, limitandone il libero esercizio.
Con la recente pronuncia n. 20688 del 13 ottobre 2016 , la Corte di Cassazione sembra aver effettuato, seppur non formalmente ma certamente in via di fatto, un "cambio di marcia" rispetto alla precedente decisione, ritenendo legittimo il recesso esercitato dal contratto di concessione automobilistica, motivato dall'esigenza della casa automobilistica-concedente di riorganizzare la rete di vendita, senza dover tener conto di un bilanciamento dei propri interessi con quelli della controparte.
La Corte di Cassazione ha, quindi, statuito che il recesso della casa automobilistica volto all'adozione di una nuova strategia di marketing non può dirsi abusivo né illegittimo in quanto rispondente ad "… una scelta imprenditoriale che non può essere soggetta a un sindacato … in termini di assoluta oggettività se non a costo di una illegittima compressione della libertà di impresa …", laddove, tuttavia – prosegue la Corte – detto recesso risponda sempre a criteri oggettivi e non discriminatori.
Pur, dunque, non ponendosi in aperta antitesi con la sentenza del 2009, e confermando formalmente la necessità di rispettare i canoni di buona fede oggettiva e di correttezza nell'esercizio del recesso, la sentenza del 2016 ha comunque salvato la libertà di impresa, apparentemente negata dalla sentenza del 2009.
Sull'onda del maggior favor nei confronti del concedente, si segnala anche la recente pronuncia di merito del Tribunale di Milano del 2 dicembre 2016 n. 13370, che ha ritenuto legittima la risoluzione del contratto di licenza di marchio esercitata da una casa automobilistica per inadempimento della licenziataria, in quanto quest'ultima si era resa inadempiente all'obbligo, contrattualmente previsto, di rispettare determinati criteri e standard qualitativi espressamente pattuiti nel contratto.
In tale occasione, la licenziataria si appellava ai contenuti della succitata Sentenza del 2009, lamentando l'illegittimità e l'infondatezza della risoluzione da parte della casa automobilistica sostenendo che quest'ultima aveva abusato del diritto di risoluzione, violando i canoni di correttezza e buona fede, soprattutto per non averle concesso un ulteriore termine per l'adeguamento agli standard non soddisfatti.
Il Tribunale di Milano ha sottolineato come la casa automobilistica "… ben ha potuto applicare la clausola risolutiva, che, diversamente opinando, sarebbe sostanzialmente neutralizzabile dal licenziatario che continuasse ad essere inadempiente variando, tuttavia, continuamente gli ambiti della propria inadempienza onde poter invocare ripetutamente il termine contrattuale di adeguamento: com'è evidente si tratta di un'interpretazione della clausola non conforme a buona fede, che ignora completamente l'interesse del licenziante che, in effetti, tramite la selezione dei Punti di servizio, intende garantire immediatamente – e non nel tempo che il licenziatario a titolo gratuito pretende – un preciso standard di qualità del servizio offerto ai clienti …" della casa automobilistica.
Sembra, quindi, confermato un indirizzo giurisprudenziale favorevole alla tutela delle scelte imprenditoriali e alla libera iniziativa economica, permettendo, pur nel rispetto delle clausole generali di buona fede e correttezza, il recesso e la risoluzione da contratti.
Può forse parlarsi di una rinascita dell'art. 41 della Costituzione, in passato sempre oscurato da interessi ritenuti più meritevoli di tutela dalle corti di legittimità e di merito?