In data 15 marzo 2021, il Consiglio di Stato (“CdS”) si è pronunciato sul ricorso proposto dalla F. Hoffmann-La Roche Ltd (“Roche”), dalla Roche S.p.a. (“Roche Italia”), dalla Novartis A.G. e dalla Novartis Farma s.p.a. (“Novartis”) con il quale era stata domandata la revocazione della precedente sentenza con cui lo stesso aveva confermato la sentenza del Tribunale Amministrativo per il Lazio (“TAR Lazio”) ed il provvedimento dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) nei confronti delle suddette società. Si tratta di una pronuncia complessa di natura processuale, ma di portata sistemica, che ha sollevato delle prospettive di diritto europeo completamente inedite.
Questi i fatti.
In data 27 febbraio 2014, l’AGCM aveva inflitto a Roche e a Novartis un’ammenda di oltre 180 milioni di euro[1] per aver violato l’articolo 101 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) realizzando un’intesa orizzontale restrittiva della concorrenza. Più particolarmente, nonostante fossero ambedue utilizzabili in ambito oftalmico, la Roche e la Novartis avevano artificiosamente differenziato l’Avastin ed il Lucentis riducendo la domanda del prodotto meno costoso, l’Avastin, a favore di quello più costoso e concorrente, il Lucentis, e manipolando la percezione dei rischi legati all’uso off-label del primo per la cura di patologie oftalmiche mediante la produzione e la diffusione di informazioni tali da generare preoccupazioni nell’opinione pubblica in merito alla sua sicurezza e da condizionare le scelte terapeutiche dei medici. Avverso la sanzione loro inflitta dall’AGCM, la Roche e la Novartis avevano impugnato il provvedimento dinanzi al TAR del Lazio, che aveva respinto i ricorsi[2]. Ambedue le due imprese avevano proposto appello al CdS, che aveva sospeso il procedimento e sottoposto alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea una serie di questioni pregiudiziali di interpretazione del diritto europeo[3].
In data 23 gennaio 2018 la Corte di Giustizia si era pronunciata nella Causa C-179/16 statuendo che la strategia collusiva posta in essere da Roche e Novartis costituiva una restrizione della concorrenza per oggetto in quanto mirava, da un lato, ad indurre l’Agenzia Europea per i Medicinali (European Medicines Agency, EMA) e la Commissione in errore e ad ottenere l’aggiunta della menzione di effetti collaterali negativi nel riassunto delle caratteristiche del prodotto (RCP) dell’Avastin e, dall’altro, ad enfatizzare, in un contesto di incertezza scientifica, la percezione da parte del pubblico dei rischi connessi al suo uso off-label[4].
Riassunta la causa dinanzi al giudice nazionale, il CdS aveva respinto i ricorsi in appello confermando così la sentenza di primo grado ed il provvedimento dell’AGCM[5].
Non molto dopo, Roche e Novartis hanno nuovamente adito il CdS domandando la revocazione della sentenza, sulla scorta di due motivi. Più particolarmente, con il primo motivo le ricorrenti contestavano l’errore revocatorio a motivo della dichiarata assenza di accertamenti effettuati dalle autorità preposte al controllo del rispetto della normativa farmaceutica o dai giudici nazionali dell’illiceità delle condizioni di riconfezionamento e di prescrizione dell’Avastin destinato all’uso off-label. Con il secondo motivo, le ricorrenti lamentavano l’omessa pronuncia in relazione al profilo dell’ingannevolezza delle informazioni diffuse dalle imprese, rilevando come tale profilo fosse cumulativo ed aggiuntivo rispetto alla prova della concertazione, essendo pertanto necessario uno specifico test al fine di verificare se le eventuali informazioni diffuse dalle parti fossero o meno ingannevoli.
Con sentenza del 15 marzo 2021, il CdS [6] i) ha dichiarato l’inammissibilità dei predetti motivi di revocazione non sussistendo i presupposti di cui all’articolo 395[7] c.p.c., così come interpretato dalla giurisprudenza nazionale, alla stregua del quale erano stati esaminati, ii) ha ritenuto che non rientrava nella figura dell’errore di fatto revocatorio di cui all’articolo 395, n. 4, c.p.c. la statuizione che aveva escluso che le operazioni di riconfezionamento dell’Avastin necessitassero di un’Autorizzazione all'Immissione in Commercio (AIC) ai sensi dell’articolo 6 della Direttiva 2001/83[8] né di un’autorizzazione di fabbricazione ai sensi dell’articolo 40[9] della medesima direttiva, allorché tali operazioni siano prescritte da un medico mediante una ricetta individuale e siano effettuata da farmacisti ai fini della somministrazione del medicinale in ambito ospedaliero, e iii) ha altresì escluso che il dedotto mancato esame di una serie di “prese di posizione” delle Autorità competenti costituisse un errore di fatto revocatorio[10].
In via subordinata, le ricorrenti avevano dedotto la violazione manifesta dei principi di diritto affermati dalla Corte di Giustizia nella Causa C-179/16 inter partes, in quanto la sentenza impugnata i) aveva confermato la decisione dell’AGCM di includere nel medesimo mercato rilevante i due farmaci senza tener conto delle plurime ufficiali prese di posizioni di autorità e giudici competenti che avevano accertato l’illiceità della domanda e dell’offerta di Avastin off-label, e ii) non aveva indagato la pretesa ingannevolezza delle informazioni diffuse da Roche e da Novartis, sebbene essa rappresentasse un autonomo elemento costitutivo della fattispecie contestata.
Le ricorrenti, infine, avevano chiesto di sottoporre alla Corte di Giustizia, tramite un nuovo rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE, la questione circa la compatibilità comunitaria di un meccanismo procedurale come quello di cui agli articoli 106 c.p.a.[11] e 395 e 396[12] c.p.c., nella misura in cui non prevede un’ulteriore speciale ipotesi di revocazione in un caso di violazione manifesta dei principi di diritto affermati dalla Corte di Giustizia in sede di rinvio pregiudiziale e non consente, pertanto, di prevenire la formazione di un giudicato anticomunitario[13].
Il CdS ha preliminarmente ricordato che le modalità di attuazione del principio dell’intangibilità del giudicato rientrano nell’ordinamento giuridico interno degli Stati Membri[14], e che il diritto europeo non impone ad un giudice nazionale di disapplicare le norme procedurali interne che attribuiscono forza di giudicato ad una pronuncia giurisdizionale, neanche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una situazione nazionale in tesi contrastante con lo stesso[15]. Nel caso concreto, tuttavia, la questione pregiudiziale proposta dalle parti si colloca all’interno della medesima controversia durante la quale lo stesso giudice che avrebbe violato la decisione della Corte, la aveva adita ai sensi dell’articolo 267 TFUE; di talché, sebbene la causa principale risulti ancora sub iudice, non sussisterebbero, in base alle norme processuali interne, strumenti per intervenire e correggere la decisione laddove in contrasto con i principi espressi, nel medesimo giudizio, dalla Corte di Giustizia. Secondo il CdS la possibilità di incidere sulla decisione prima che la stessa passi in giudicato, al fine di scongiurare il consolidamento di una ipotetica violazione del diritto europeo, appare preferibile rispetto al possibile rimedio, solo successivo, del risarcimento del danno, che in ogni caso implicherebbe per la parte gli oneri di un nuovo giudizio e per il quale sarebbe in ogni caso necessario che la violazione del diritto unionale sia non solo sussistente, e bensì anche manifesta[16].
Per quanto riguarda l’astratta configurabilità di una violazione del diritto comunitario, il CdS ha ribadito di aver già a suo tempo non solo sollevato al riguardo uno specifico quesito pregiudiziale alla Corte di Giustizia, e bensì di averne anche recepito la relativa pronuncia, ciò che mostrerebbe il suo chiaro intento di volersi uniformare al diritto europeo. Di conseguenza, non sarebbe ravvisabile la grave violazione del diritto comunitario lamentata dalle ricorrenti, potendosi al più configurare un error in iudicando. A tal proposito, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa si colloca all’esterno dell’interpretazione della norma, e inerisce alla valutazione del giudice di merito[17]. Più particolarmente, secondo il CdS l’assetto tipico dei rapporti tra Corte di Cassazione e giudice di merito sarebbe replicabile anche nella prospettiva dei rapporti tra giudice nazionale e Corte di Giustizia: al primo, infatti, appartiene in via esclusiva il potere di decidere la controversia e di valutare i fatti e le emergenze istruttorie[18], di talché la Corte di Giustizia non è competente a pronunciarsi su questi ultimi[19].
Per quanto riguarda il motivo inerente l’assenza di accertamenti da parte delle autorità preposte al controllo del rispetto della normativa farmaceutica o dei giudici nazionali, dell’illiceità delle condizioni di riconfezionamento e di prescrizione dell’Avastin destinato all’uso off-label, dopo aver ripercorso le valutazioni della Corte di Giustizia[20] il CdS ribadisce di non essersi sottratto, nella sentenza impugnata, alla verifica demandata al giudice di merito, e bensì di aver richiamato a proposito quanto affermato dalla Corte di Giustizia nella successiva Causa C-29/17, secondo cui il riconfezionamento dell’Avastin alle condizioni previste dalle misure nazionali non necessita di un’AIC, allorché tale operazione sia prescritta da un medico mediante una ricetta individuale ed venga effettuata da farmacisti ai fini della sua somministrazione in ambito ospedaliero[21]. Di talché, durante il periodo di riferimento, l’Avastin era stato spesso prescritto, appunto off-label, per il trattamento di malattie oftalmiche nonostante la sua AIC non coprisse tali indicazioni, ciò che denotava l’esistenza di un rapporto concreto di sostituibilità tra il medicinale in questione e quelli autorizzati per le medesime patologie oftalmiche, tra i quali il Lucentis.
Per quanto riguarda, invece, il motivo inerente il mancato test circa l’ingannevolezza delle informazioni diffuse da Roche e da Novartis, secondo la Corte di Giustizia,[22] in un contesto di incertezza scientifica le imprese sono chiamate ad un indispensabile rigore informativo, non potendo esse enfatizzare come un fatto scientifico incontroverso delle risultanze che sono ancora incerte, e bensì dovendo riportare sempre in modo chiaro, preciso e completo lo stato complessivo delle conoscenze scientifiche in riferimento ad un determinato medicinale e la loro eventuale non univocità. Di conseguenza, secondo il CdS non vi è stata alcuna violazione dei principi espressi dalla Corte di Giustizia, avendo esso al contrario i) esaminato le iniziative informative poste in essere dalla Roche e dalla Novartis in attuazione dell’intesa, ii) ritenuto non sussistere alcuna preoccupazione per la salute dei pazienti, e bensì solo il timore, espressamente condiviso tra le due imprese, che gli impieghi dell’Avastin erodessero quelli del Lucentis, e iii) stabilito che le loro iniziative non mirassero a fornire un’informazione completa e puntuale sulla sicurezza dell’Avastin, e bensì ad inserire nel suo RCP conclusioni volte ad aumentare l’incertezza circa il suo utilizzo.
Ne segue, secondo il CdS, che la questione pregiudiziale sollevata dalle parti è sprovvista di rilevanza, in quanto sarebbe da escludersi sia una violazione del diritto europeo che dei principi affermati dalla Corte di Giustizia nella Causa C-179/16.
Il CdS si chiede, tuttavia – ed è verosimilmente questo il punto saliente ed innovativo della pronuncia - se debba essere il giudice nazionale a sindacare in ultima istanza la sussistenza di una violazione del diritto europeo piuttosto che la Corte di Giustizia. Benché, infatti, normalmente esuli delle competenze della Corte la verifica e la valutazione delle circostanze di fatto relative al procedimento principale[23], nel caso concreto la domanda di revocazione delle ricorrenti si fonda soltanto, e necessariamente, sulla supposta violazione dei principi affermati dalla Corte di Giustizia nella precedente fase processuale; di talché, anche le circostanze di fatto ed i relativi elementi di prova possono venire a costituire, nella loro prospettata errata o mancata valutazione da parte del giudicante, degli specifici parametri alla stregua dei quali verificare la sussistenza o meno della violazione.
Alla luce di quanto precede, il CdS chiede alla Corte di Giustizia di pronunciarsi sui seguenti quesiti:
“a) Se il giudice nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, in un giudizio in cui la domanda della parte sia direttamene rivolta a far valere la violazione dei principi espressi dalla Corte di Giustizia nel medesimo giudizio al fine di ottenere l’annullamento della sentenza impugnata, possa verificare la corretta applicazione nel caso concreto dei principi espressi dalla Corte di Giustizia nel medesimo giudizio, oppure se tale valutazione spetti alla Corte di Giustizia;
b) Se la sentenza del Consiglio di Stato n. 4990/2019 abbia violato, nel senso prospettato dalla parti, i principi espressi dalla Corte di Giustizia nella sentenza del 23 gennaio 2018 in relazione a) all’inclusione nel medesimo mercato rilevante dei due farmaci senza tener conto delle prese di posizioni di autorità che avrebbero accertato l’illiceità della domanda e dell’offerta di Avastin off-label; b) alla mancata verifica della pretesa ingannevolezza delle informazioni diffuse dalle società;
c) Se gli articoli 4, paragrafo 3, 19, paragrafo 1, del TUE e 2, paragrafi 1 e 2, e 267 TFUE, letti anche alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ostino ad un sistema come quello concernente gli articoli 106 del codice del processo amministrativo e 395 e 396 del codice di procedura civile, nella misura in cui non consente di usare il rimedio del ricorso per revocazione per impugnare sentenze del Consiglio di Stato confliggenti con sentenze della Corte di Giustizia, ed in particolare con i principi di diritto affermati dalla Corte di Giustizia in sede di rinvio pregiudiziale”.